Il Judo (o meglio, il Kodokan Judo) trae origine dall’antico ju-jitsu. Le radici del ju-jitsu si perdono tra le legende: la più nota racconta che un medico di Nagasaki, Shirobei Akiyama, si recò in Cina per approfondire le sue cognizioni sull’agopuntura e sui metodi di rianimazione (kappo); Akiyama approfittò del soggiorno nel continente per studiare anche il taoismo e le arti marziali cinesi. Tornato in patria, durante un periodo di meditazione notò che i rami più robusti degli alberi si spezzavano sotto il peso della neve, mentre quelli di un salice si piegavano flessuosi fino a scrollarsi del peso, per riprendere poi la posizione senza aver subito danni. Applicando alle tecniche di combattimento apprese in Cina le considerazioni maturate sulla cedevolezza o «non resistenza», fondò la scuola yo-shin (del «cuore di salice»).
Le molte scuole di ju-jitsu, pur con diverse sfumature, fecero proprio questo fondamentale concetto, che rivoluzionò la maniera di lottare: la morbidezza può vincere la forza.
Il ju-jitsu raggiunse il massimo splendore durante il lungo periodo di pace instaurato da Ieyasu Tokugawa dopo la battaglia diSegikahara (1600), la sua proclamazione a Shogun (1603) e la conquista del castello di Osaka (1615). La fine delle guerre civili che avevano insanguinato il Giappone dal XII secolo, interrotte soltanto per respingere le invasioni mongole di Kublai Khan nel 1274 e 1281, lasciò disoccupati migliaia disamurai, che divennero perciò ronin («uomini onda», ossia guerrieri senza padrone). Molti di loro pensarono quindi di mettere a frutto quanto avevano appreso sui campi di battaglia, raccogliendo e perfezionando le tecniche di combattimento, con o senza armi, ereditate dal passato. E mentre in precedenza esistevano solo scuole private ad uso dei grandi clan, ognuno dei quali elaborava e tramandava al suo interno colpi di particolare efficacia, sorsero allora scuole di bu-jitsu (arti marziali) aperte a tutti. L’uso strategico del corpo umano raggiunse livelli sbalorditivi di efficienza, ma contemporaneamente il bu-jitsu si trasformò in bu-do: tramite l’addestramento marziale si tendeva a raggiungere anche un perfezionamento spirituale.
Due secoli e mezzo di pace durante lo shogunato Tokugawa furono possibili grazie a un rigoroso controllo verticistico, che tendeva al mantenimento dell’ordine. Divennero difficoltosi i contatti all’interno e furono decisamente vietati quelli con l’esterno, pena la morte, relegando il paese fuori dalla storia. Intorno alla metà del XIX secolo, però, alla ricerca di nuovi mercati commerciali in Estremo Oriente dopo l’apertura di cinque porti cinesi nel 1842 (trattato di Nanchino, a seguito della “guerra dell’oppio”), le grandi potenze decisero di porre fine all’isolamento nipponico.
Il 1853 segna una data storica per il Giappone:l’8 luglio il commodoro Matthew Calbraith Perry, della Marina Americana, entra nella baia di Uraga con una flotta di 4 navi da guerra (le celebri 4 “navi nere”) consegnando allo Shogun un messaggio del presidente Fillmore col quale si chiedevano l'apertura dei porti e trattati commerciali.
In seguito ai temporeggiamenti nipponici, Perry tornò nel febbraio 1854 con otto navi, facendo chiaramente intendere che non avrebbe tollerato un rifiuto. Al trattato di Kanagawacon gli USA seguirono ben presto quelli con Gran Bretagna e Russia, gettando nello sconforto quanti avrebbero preferito morire combattendo contro un nemico meglio armato che sottostare a un umiliante cedimento. I contrasti tra i “falchi” e le “colombe” si acuirono via via fino a spaccare in due il paese. Ne conseguì inevitabilmente una sanguinosa reazione a catena, culminata nel 1868 con la fine del bakufu (shogunato) Tokugawa e con la «restaurazione Meiji»: dopo sette secoli il potere politico dalle mani dello shogun tornava in quelle dell’imperatore. Il giovane Mutsuhito trasferì la capitale da Kyoto (ove risiedeva dal 794) a Edo, che chiamò Tokyo, ossia «capitale dell’est», inaugurando l’era Meiji, di «governo illuminato».
Nei primi anni dell’era Meiji (1868-1912), sotto l’infatuazione per la civiltà e i costumi occidentali, il bujitsusubì una rapida decadenza; a questa contribuirono l’editto imperiale del 1876 con il quale si proibiva l’uso delle spade, decretando di fatto la scomparsa della classe sociale dei samurai, e l’enorme diffusione delle armi da fuoco. Vi furono importanti cambiamenti culturali nella vita dei giapponesi dovuti all'assorbimento della mentalità occidentale e naturalmente ciò provocò un rigetto per tutto ciò che apparteneva al passato, compresa la cultura guerriera che tanto aveva condizionato la vita del popolo durante il periodo feudale. Il ju-jitsu, facente parte di questa cultura, da nobile che era scomparve quasi del tutto. Le antiche arti del combattimento tradizionale vengono ignorate anche a causa della diffusione delle armi da fuoco ed i numerosi dojo allora esistenti furono costretti a chiudere per mancanza di allievi; i pochi rimasti erano frequentati da ex guerrieri dediti a combattere per denaro e spesso coinvolti in crimini. Molti esperti, rimasti senza allievi, per sopravvivere in una società profondamente mutata dovettero esibirsi a pagamento insquallidi locali o finirono nella malavita.
Questo influenzò ulteriormente il giudizio negativo del popolo nei confronti del ju-jitsu nel quale vedeva un'espressione di violenza e sopraffazione.
I maestri non tramandavano più il loro sapere, portandosi nella tomba i segreti delryu (scuola): un grande patrimonio di nobili tradizioni stava per scomparire. Questo era il triste spettacolo che apparve a Jigoro Kano.